Spello Villa Fidelia, La Limonaia 2003

Mostra Immateriali Immanenze

Ogni traccia, ogni segno in grado di aiutarci a trascendere l’orizzonte limitato della nostra esperienza vitale è frutto prezioso: non si tratta tanto di rincorrere nuove dottrine o nuovi fideismi che sostituiscano sistemi di pensiero giudicati insufficienti o inadeguati, quanto della disponibilità a prestare maggiore ascolto ad echi e risonanze provenienti da indistinte lontananze che possono avere la loro dimora sia in noi che fuori di noi. Sovente ci facciamo guidare dall’immediatezza e dall’apparenza, strade maestre certamente piene di attrattiva ma che non di rado ci lasciano in eredità un senso profondo di incompiutezza e di insoddisfazione: provare a mettersi in gioco, ad andare oltre la soglia, ecco la scommessa intellettuale che tutte quelle espressioni d’arte germogliate dal connubio con la filosofia si propongono se non di vincere almeno di impostare con il necessario rigore di metodo.
Una consimile tensione morale e conoscitiva, ma esibita senza alcuna presuntuosa protervia, costituisce il nucleo fondante della proposta pittorica di Massimo Diosono, artista umbro poco più che trentenne, vissuto nella sua prima giovinezza a diretto contatto con l’austera realtà sociale della Torino operaia: formatosi all’Accademia perugina “Pietro Vannucci”, ove poté tra l’altro giovarsi della finezza storico-critica di Bruno Corà e del magistero tecnico-formale di Nuvolo (maestri che Diosono ha sempre sentito come essenziali per la costruzione stessa del suo percorso estetico), l’artista ha prediletto una dimensione appartata – con poche, distillate apparizioni in rassegne e mostre – in sintonia pressoché totale con il tipo di ricerca perseguito. I circa quindici dipinti che si presentano in questa occasione sono l’esito del lavoro di questi ultimi due anni, una sorta di conclusione provvisoria di un ciclo pittorico che ha però preso le mosse poco meno di dieci anni fa. Ogni singolo quadro costituisce un màndala, o una variazione su questo tema, dichiarato richiamo ai diagrammi geometrici intessuti di valenza simbolica, caratteristici dello spiritualismo orientale e ideati, da millenni, come archetipi meditativi in grado di evocare la struttura profonda del cosmo e di ciò che esso racchiude. La specifica declinazione filosofica con la quale Diosono è entrato in sintonia con questa particolare visione del mondo va certamente individuata nell’adesione dell’artista al pensiero zen e al taoismo, peraltro in modi totalmente scevri da forme di fanatismo dogmatico, del tutto estranee alla sensibilità laica e al modo di essere di questo pittore.
Appare essenziale, per cercare di coglierne le implicazioni, accostare i dipinti di Diosono a qualche passo del Tao te Ching di Lao Tzu, il celeberrimo testo orientale risalente al VI-V sec. a.C., singolarmente coevo alle vette più alte dello spirito ellenico, culla dell’Occidente. Si consideri, ad esempio, quanto affermato in questo aforisma: “Trenta raggi si riuniscono in un centro vuoto / ma la ruota non girerebbe senza quel vuoto. / Un vaso è fatto di solida argilla, / ma è il vuoto che lo rende utile. / (…). / Dunque, per utilizzare ciò che è / devi utilizzare ciò che non è” (Lao Tzu, Tao te ching, 11, ediz. B. B. Walker, trad. C. Lamparelli). Si cominci ora ad osservare, con la lentezza partecipe necessaria alla percezione visiva e spirituale dei dipinti di Diosono, quanta importanza assume – nei quadri impostati su singole dominanti cromatiche animate dalle variazioni di tonalità – la dialettica tra pieno e vuoto, con un trascorrere del segno che non privilegia né il primo né il secondo termine, essendo entrambi fondamentali per la compiuta manifestazione della forma: se infatti, di primo acchito, i ricami geometrici intessuti dall’artista sembrano dominare sul resto, si tarderà poco a riconoscere che il vuoto centrale e tutti gli interstizi apparentemente a-segnici costituiscono in realtà l’imprescindibile architrave su cui può strutturarsi nella sua più intima pienezza il màndala che siamo invitati a contemplare. E le splendide metafore, dianzi evocate, della ruota e del vaso trovano in questi diagrammi dipinti una convincente traduzione, a un tempo icastica e spirituale.
Un eguale discorso va riservato al particolare trattamento della luce, ottenuto da Diosono con una disciplina esecutiva che lo conduce a ricercare, nei prediletti colori acrilici, ogni minimo passaggio tonale senza lasciare nulla al caso, con un rigore di metodo che equivale implicitamente ad una vera e propria meditazione in cui azione e contemplazione si scambiano continuamente le parti: i dipinti risultano così arricchiti da un tessuto costantemente mutevole di mobili vibrazioni luminose (sensibilissimo anche al variare delle fonti di illuminazione e allo stesso mutamento di posizione di chi guarda), istituendo un’efficace similitudine con la propagazione dei suoni nell’atmosfera. E anche in questo caso, la dialettica implicita è tra i massimi e i minimi di questa duplice scala acustico-tonale, come a dire che al parossismo luminoso fa da necessario contraltare il buio più profondo allo stesso modo di come il suono più intenso trova la sua speculare corrispondenza nel silenzio più assoluto. E quest’ultimo passaggio critico ci conduce verso i dipinti, a un tempo i più completi e rarefatti, che Diosono presenta in questa mostra: i neri, quadri in cui si fa ancora più forte e incisiva una concezione estetica imperniata su una forma che appare e scompare, insieme afferrabile e imprendibile, straordinaria allegoria della verità esistenziale, intessuta di labilità e di eternità, di cui è portatore non solo ogni essere vivente ma fors’anche ciascun oggetto inanimato. Nell’invitarci ad una sosta davanti ai suoi dipinti, Diosono, con la tranquilla energia di chi non intende affatto imporre ma suggerire, lascia risuonare in noi la corda che può guidarci verso l’intuizione della relazione tra vita e morte, tra la concretezza dell’istante e la dimensione siderale dello spazio e del tempo infiniti: in una parola, verso l’acquisizione intellettuale e spirituale, certo preziosa, di come ciascuno di noi equivalga ad un’immateriale immanenza, secondo l’ossimoro che si è scelto come titolo di questa mostra.
Sono naturalmente molteplici, visto l’universalità dell’orizzonte entro cui si muove l’artista, le suggestioni evocate dalla sua comunque personalissima ricerca iconica: in ordine sparso e non sistematico, oltre al sincretismo occidentale/orientale implicito nella sua poetica (secondo una direttrice culturale impossibile da sviluppare in questa sede), si colgono in Diosono taluni echi kleiniani (al grandissimo pittore di Nizza, fra l’altro singolarmente legato alla terra umbra, lo apparenta anche la medesima passione verso le arti marziali, nella loro dimensione di discipline sapienziali), frammisti alla meditazione sulla musica di John Cage; sul piano più squisitamente pittorico Diosono ha tratto più di una ispirazione dal suo maestro, il tifernate Nuvolo (specie dai Modulari e dagli Oigroig), anche se quest’ultimo è sempre stato maggiormente propenso a far prevalere la mobilità segnica sulla compresenza degli opposti, mentre da un altro straordinario tifernate, Alberto Burri, il giovane artista umbro ha tratto certamente materia per riflettere sulle potenzialità espressive del nero e delle sue variazioni. Ma non posso non concludere questa breve nota critica con un apparentamento generazionale: qualità indubbie come il rigore metodologico e la sorvegliata coerenza d’ispirazione avvicinano Massimo Diosono al perugino Karpüseeler, poco più anziano di lui, due artisti che, un domani, potrebbero dar vita ad un duetto espositivo di sicura fascinazione estetica ed intellettuale.


Perugia-Spello, 17 febbraio 2007

Massimo Diosono – Fermo immagine

Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie

Uno dei caratteri negativi più macroscopici dell’homo televisivus contemporaneo è la riduzione della sua visione del mondo al continuo rincorrersi – nevrotico e superficiale – di frammenti d’istantaneità dotati di scarso peso e di scarsa densità: tutto si brucia in fugaci attimi, in attesa del prossimo “evento” (in sé sacra parola, ma svilita dall’uso nefasto proposto dal mondo massmediatico), della prossima emozione, o presunta tale, da consumare senza nemmeno averne compreso il senso. Tra le conseguenze peggiori di questa mentalità diffusa (apparentemente vincente ma forse attraversata, finalmente, da qualche salutare prima crepa) è la scomparsa, dallo scenario collettivo, della morte, o meglio, della riflessione connessa all’ineluttabile presenza di quest’ultima. Imporsi di dimenticare la morte, infatti, non significa affatto esorcizzarla, ma condannarsi a vivere in una dimensione senza spessore alcuno.

Con paradosso solo apparente rispetto a quanto appena affermato, Massimo Diosono ci invita, in questa occasione, a catturare un istante, proponendoci anch’egli un’emozione che sembrerebbe fugace come un “evento”: ma in quel fermo immagine c’è il rinvio alle leggi profonde dell’Essere, formulato con quell’endiadi così propria di questo sensibile artista, che sa unire la forte intensità intellettuale del messaggio alla preziosa levità del segno con cui si manifesta. Le foglie e la cenere, la luce naturale e il suono: appese alla volta di questo splendido scrigno che, con gli anni – grazie alla meritoria generosità di Franco Ottavianelli – è divenuta la Fenestella Wunderkammern, tante foglie, alle altezze più diverse, raccolte dall’artista appena cadute dagli alberi più disparati, durante le sue passeggiate autunnali nei boschi del territorio e poi amorosamente conservate proprio per questa installazione; nel pavimento un mandala, composto essenzialmente di volatile cenere, e nell’aria il propagarsi ineffabile di suoni e melodie e l’irrompere della luce naturale, ritmata, nella sua misteriosa intensità, dal trascorrere, ogni volta nuovo ma eterno e ricorrente, del Tempo.

La caducità, la fragilitas vitae, l’impermanenza: ma, accanto ad esse, l’affermazione serena che, proprio perché non possiamo non sapere che la nostra esistenza, come quella di tutti gli esseri, è breve e fugace, ogni palpito vitale e ogni occasione in cui si manifesti la realtà dell’esistere sono preziosi ed irripetibili e vanno protetti e difesi con l’amore che si riserva a tutto ciò che ci è di più caro. La ricerca di Diosono ambisce a gettare un ponte fra le radici elleniche del pensiero occidentale (come non pensare a Platone, alla sua definizione degli esseri umani come “parvenze di parvenze”?) e le atmosfere, alate e rarefatte, della visione orientale, dello Zen e del Tao in particolare: ma lo fa da poeta, evocando con le foglie non soltanto i versi ungarettiani scelti nella titolazione di questo lavoro, ma tanta altra poesia, in un orizzonte ampio capace di arrivare ai tempi lontani del greco Mimnermo (“Siamo come le foglie nate alla stagione florida…”). Ma, soprattutto, lo fa da artista, pienamente inserito nelle modalità proprie della ricerca contemporanea, non temendo di intessere un dialogo a più voci, vuoi con Richard Long e il suo attento peregrinare a piedi e raccogliere le tracce del Tempo e della Natura, vuoi con Gerhard Richter, le cui Kerzen (“Candele”), stringono da presso il medesimo nodo tra l’intenso baluginio dell’esistere (la fiamma) e l’ineluttabile sciogliersi della cera, vuoi con Christian Boltanski e l’incerto ma vitale tremolio delle sue sagome fatte di ombra. Ma, in realtà, infiniti sono i rimandi, perché a essere eterno e universale è proprio l’inestricabile compenetrarsi di Vita e di Morte, nostro quotidiano compagno.


2008

Massimo Diosono o dell’impermanenza

Il cubo di Massimo Diosono gioca su intenzionali paradossi che scaturiscono dalla consuetudine di questo artista, incline alla meditazione e al fruttuoso confronto con la spiritualità orientale (ma in modo tutt’altro che esclusivo), a mettere in evidenza gli inevitabili dualismi – spesso capaci di elidersi a vicenda – che caratterizzano l’esistenza e i suoi orizzonti. Si parta, in primo luogo, dalla scelta di Diosono del materiale con cui ha interamente rivestito il suo cubo: l’artista ha utilizzato del cotone, applicandolo sulle facce lignee del solido con dei collanti di origine vegetale. L’artista dà così vita a degli effetti che sono a un tempo concreti e concettuali: per quanto riguarda i primi si noti come il cotone, grazie alle sue intrinseche caratteristiche di morbidezza e di modellabilità, movimenti le superfici del cubo con un continuo interscambio tra parti offerte alla brillantezza della luce e zone fortemente in ombra. Una texture, quindi, animata dall’impossibilità di giungere ad una definizione netta e codificata della sua essenza: ed in questa considerazione c’è già modo per approfondire i risvolti concettuali, presenti nel cubo dell’artista umbro. La perentorietà geometrica del solido che per eccellenza appare essere la codificazione della modularità entro cui definire le coordinate dell’esistenza, risulta sostanzialmente vanificata: rispetto alle istanze di certo minimalismo (si pensi ad alcune celebri strutture primarie del compianto Sol LeWitt) che riconoscevano in una sorta di reductio ad unum la possibilità di imbrigliare l’esistenza in una forma capace di rappresentarla ora e per sempre (un sogno o un’utopia, se si preferisce, che peraltro anche lo stesso LeWitt ebbe modo di mettere non di rado in discussione), il cubo di cotone di Diosono modifica le regole del gioco. Prima di procedere oltre è forse bene introdurre il titolo che l’artista ha voluto dare a questo suo lavoro ternano: Catarsi3, una definizione che non è soltanto un gioco di parole che richiama il nome della rassegna, Arte3, ma una precisa indicazione su implicazioni di origine aristotelica (si pensi alla Poetica, dove il termine catarsi, ‘purificazione’, allude, pur non senza moderne ambiguità interpretative, ad una delle principali funzioni dell’arte, il ‘liberarsi dalle passioni’). La catarsi promossa da Diosono, con il suo intenzionale sovvertimento delle regole del gioco, cui si faceva cenno, è imperniata sul concetto di rovesciamento: così come il cubo, plastico e regolare, diventa una superficie pervasa da una morbidezza irregolare e vibrante in cui illuminazioni di superficie e impercorribili angoli di buio si scambiano le parti senza che una possa dominare sull’altra, anche altri ambiti di forma e di pensiero ne risultano coinvolti. La fragilità del cotone, con la sua parziale inconsistenza dovuta ad uno sfilacciamento (sempre potenzialmente operante) che potrebbe distruggerne la residua solidità (un tema, questo, toccato in molte altre significative opere dell’artista, con materiali particolari come la cenere, le foglie e altro ancora), si contrappone al legno sottostante, che non possiamo non immaginare solido e materico: ma è precisamente in questo aspetto che si innesta la profonda conoscenza di Diosono della filosofia orientale (e del pensiero zen in particolare) con il primato dell’immaterialità sulla consistenza, o, per meglio dire, dell’impermanenza sulla stabilità (ritrovando in questo anche precisi echi del pensiero platonico). In altri termini, in questo cubo dell’artista umbro, proprio il cotone, ben più del legno, saprebbe indicare una possibile via per cogliere appieno il senso del mondo, ammesso e non concesso che sia possibile raggiungere tale meta intellettuale: l’apparente tangibilità plastica delle cose circonfusa da una materia magmatica, forse più parlante e disvelante, assai prossima all’inconsistenza e al nulla. Una via, naturalmente, che dissolverebbe solo in modo iniziale e preliminare la sostanziale enigmaticità dell’esistere.


 “Per colui che vede nulla resta”: Massimo Diosono e la perdurante domanda sul senso del mondo

Una chiesa ormai priva della sua funzione originaria, entro un antico ospedale che – pur esso – non vede più aggirarsi tra le sue mura i malati e le loro sofferenze, i cerusici e gli infermieri che ne ascoltavano i lamenti e cercavano di curarne i dolori e le malattie. Un luogo, quindi, che pur fisicamente esistente e apparentemente riconoscibile, ha cessato il suo rapporto con l’origine prima del suo esistere: questa (e in particolare l’interno dell’antico edificio sacro di Santa Maria della Misericordia di Perugia), l’area con cui si è misurato, in questo suo lavoro davvero site specific, come si vedrà ancora meglio fra breve, Massimo Diosono. Prima di analizzare in dettaglio il lavoro dell’artista, è d’obbligo offrire qualche riflessione – assolutamente essenziale per penetrare la poetica stessa di Diosono – su due concetti che paiono automaticamente scaturire dal luogo prescelto e, più in generale, dalla nostra condizione di uomini assetati di Storia, una sete che, forse, non è possibile placare come si vorrebbe.
La chiesa di Santa Maria della Misericordia è, con evidenza, un edificio che ha definitivamente perso la sua sacralità, caratteristica che ne aveva motivato secoli prima la costruzione e l’uso: in quella struttura religiosa si sono avvicendati uomini e donne in cerca di un conforto, fiduciosi nel potere taumaturgico della preghiera e in un ideale di speranza, la vita eterna nelle braccia divine quale riscatto dalle sofferenze terrene. Ma tutto questo, entro quelle mura che pur possiedono ancora un’architettura e una decorazione che rimandano a quel passato, non c’è più, è disperso in qualcosa che è tangibile solo con estrema difficoltà, quel luogo è ormai altro da quello che era: in qualche misura è diventato un non-luogo, per usare la celebre definizione cara a Marc Augé, proprio perché spossessato dalla funzione originaria. E, oltre allo studioso francese, potremmo anche aggiungere Edgar Wind che, in un memorabile saggio del 1963, Arte e anarchia, rilevava come l’arte stessa fosse ormai qualcosa di assai diverso da ciò che era stata per secoli, dal momento che nelle chiese non ci inginocchiamo più di fronte ai quadri (e il suo, naturalmente, era tutt’altro che il discorso di un baciapile!).
Ma c’è una seconda considerazione parimenti necessaria, del resto già evocata poche righe fa: quanto di quel passato (ma dovrei dire, di qualsiasi passato) è davvero afferrabile? Siamo troppo spesso convinti che una buona analisi storica, una ricerca archivistica o importanti cose simili ci restituiscano ciò che è stato, ma è bene riflettere a fondo che tali operazioni sono solo punte di iceberg: non potremo più condividere davvero le sensazioni intime, le ansie e le aspettative, in una parola l’umanità, nobile e ignobile, di chi si è mosso in un certo ambito spazio-temporale e oggi non ha più voce, se non al di fuori di una piccola eco non priva, peraltro, di una significativa energia ancora flebilmente avvertibile. Mi si potrebbe facilmente accusare di irrazionalismo ma, a parte il fatto che ho alle spalle saldi studi archeologici di gioventù con ottimi maestri e che da decenni insegno una disciplina storica come la storia dell’arte, credo che il vero irrazionalismo stia in chi crede che la ricostruzione storica (historia rerum gestarum) equivalga alla Storia (res gestae): una percentuale, per me molto rilevante, di ciò che gli uomini hanno vissuto, vivono e vivranno (le res gestae per l’appunto), è destinata, direi platonicamente, a trasformarsi in qualcosa di impalpabile e di inafferrabile; qualcosa che nemmeno il miglior Tucidide o il miglior Tacito potrebbero mai far rivivere davvero nella sua globalità, anche se (è ovvio), quello che si riesce a cogliere di ciò che è stato è comunque prezioso per chi, come noi, (soprav)vive nel presente. Per altra via, potremmo definire la Storia anche attraverso la splendida metafora logico-esistenziale del noumeno kantiano.
È su questi capisaldi che si innesta l’operazione di Massimo Diosono, centrata su sedici opere di grandi dimensioni (un metro per un metro ciascuna, tranne due, si veda oltre, leggermente più grandi), realizzate una metà con l’ovatta e l’altra con della cenere: lungo le due pareti della chiesa l’artista ha posto, specularmente, sette coppie di simboli ideologici potentissimi che hanno attraversato la Storia, con particolare (anche se non esclusivo) riferimento al secolo XX. Ciascuna di queste coppie è realizzata, come già in parte anticipato, da un’opera di soffice ovatta (nel lato sinistro della navata unica della chiesa) e un’altra di labile cenere (nel lato destro): i simboli prescelti sono, la croce uncinata nazista (che, non si dimentichi, è un antichissimo simbolo giainista non violento usurpato da Hitler), la stella di David, il simbolo della pace, il simbolo dell’oro, la falce e martello di matrice marxista-leninista, la mezzaluna dell’Islam e il mantra induista Om. Le altre due opere, un po’ più grandi per ragioni di visibilità dovute alle loro particolari collocazioni sono costituite da un’altra coppia formata da due croci latine cristiane: una è di ovatta ed è posta sul capocroce presbiteriale, mentre l’altra – secondo la medesima contrapposizione materica che si è vista per le sette coppie lungo la navata – è di cenere, ed è visibile voltandosi e/o ritornando verso l’uscita della chiesa. Ma c’è un altro importante protagonista di questa opera di Massimo Diosono: il vuoto centrale dell’edificio, destinato a essere riempito dagli spettatori che, certamente (e non è un vuoto auspicio da curatore) saranno attratti o quantomeno turbati dall’esibizione di simboli così potenti e controversi uno di fianco all’altro.
Bisogna subito sgombrare il terreno da una tentazione che potrebbe venire spontanea, lo stabilire un ordine gerarchico fra questi otto simboli, il problema non è quello, è cogliere in profondità la metafora assai forte dell’ovatta e della cenere posta, per di più, all’interno di uno spazio spossessato della sua funzione originaria (ed è per questo che parlavo all’inizio di un’operazione davvero site specific, meditata sul senso profondo del luogo, come troppo raramente succede nell’odierno panorama delle arti): in quei simboli e in ciò che rappresenta(va)no hanno creduto e credono milioni di persone, magari in perfetta buona fede, ma sostanzialmente ingannati dalle leggi profonde del divenire e della contingenza, della apparizione e della sparizione delle cose. Facciamo una breve rassegna puramente impolitica e, semmai, filosofico-esistenziale: il nazismo, una fede folle e criminale, certo, ma che ha entusiasmato un popolo intero tutt’altro che stupido; il simbolo della pace che tanto amiamo, ma che è brandito dai poteri forti, quelli veri, per operazioni aggressive che nulla più hanno a che fare con quel simbolo; l’oro, la fascinosa energia solare, ma caro a tutti i tiranni e a noi che, in modo un po’ filisteo, ne agogniamo il valore di bene-rifugio; la falce e martello, per decenni bandiera di liberazione per i diseredati di tutto il pianeta, e poi strappatasi malinconicamente in mille lacerazioni; l’islam, professione di fede vivissima per una parte non piccola del mondo ma su basi non certo prive di arcaismi premoderni; la stella di David, espressione di un popolo autogiudicatosi a torto “eletto” e incapace di uscire dalla dialettica funesta tra sentirsi perseguitato e difendersi con armi di morte; il mantra induista Om, forse una delle possibili chiavi di lettura del divenire del mondo (Diosono è un attento studioso della spiritualità orientale), ma resa malcerta dal suo stesso carattere di indimostrabilità e dalla sua scarsa presa nell’Oriente moderno, in cui tali idee (dall’India alla Cina al Giappone, passando ovviamente per lo zen e il taoismo) sono ormai praticate da pochi individui, a differenza di quello che comunemente si crede; la croce, spacciata per baluardo di pace tra gli uomini e unica verità, quando invece, purtroppo, si è combattuto duramente per secoli nel suo nome e non c’è davvero nulla che possa comprovare incontrovertibilmente il suo valore di perno della conoscenza.
La suadente (in)consistenza dell’ovatta, che pare attrarci con la sua morbidezza invitandoci ad avvicinarci e a condividere quello che il simbolo immediatamente esprime, quasi con un rimando, per citare una celebre frase del Manifesto marinettiano del 1909, “alle belle idee per cui si muore”, e – di contro, ma al tempo stesso come parte del medesimo discorso – la decostruzione disillusa insita nella cenere, che non può non richiamare l’Ecclesiaste e la sua vanitas vanitatum. Di tutti quei simboli, che hanno così indissolubilmente e tragicamente legato vita e morte, emozionanti illusioni e cocenti delusioni, resta un silenzio gravido di attesa: una fragile quiete sospesa tra la saggezza di chi scorge nelle cose del mondo un’inutile arena da combattimento in cui cercare piuttosto un superiore equilibrio (ma rischiando l’estremismo del romitaggio), e quella di chi vi vede un luogo dove sopravvive un barlume di antica energia grazie al quale, nonostante tutto, provare ancora a spendersi, pur rischiando, a sua volta, di venire travolto dal nulla che avvolge le cose (“Degli antichi non v’è più ricordo, come dei posteri che vivranno dopo di noi non rimarrà alcuna memoria presso quelli che verranno in seguito”, Eccl., 1, 11). Massimo Diosono ha scelto come titolo di questo suo importante lavoro, pregevole non solo per l’ideazione e il legame con il sito prescelto, ma per la cura formale di ciascuna opera e per la composizione d’insieme, una frase in sé chiara, ma volutamente non priva di elementi sibillini: “Per colui che vede nulla resta”. A ciascuno di noi l’intima scelta tra una forma sapienziale di meditazione che prescinda dal divenire apparente delle cose e ne accolga il senso ultimo, il desiderio di lanciarsi comunque nell’agone del mondo o il compendio tra queste due distinte possibilità, aderendo con sincerità alla commedia multiforme della vita, ma senza dimenticare che non di rado si recita pirandellianamente a soggetto.