Anche quel giorno la piccola città si era svegliata sotto un cielo grigio e plumbeo. In quella luce neutra senza ombre la sua geometrica ruvidità si dispiegava potente. La sua struttura labirintica, morbida e obliqua, affatto aprica, ne rendeva difficile l’esplorazione e la comprensione. I suoi abitanti, come da consuetudine ormai secolare, galleggiavano in questo labirinto in uno stato di curiosità mista a un’indifferenza inebetita e stupita. Il loro tessuto sonoro è formato da bisbigli e sussurri, più raramente da voci, che in maniera del tutto infrequente ed improvvisa esplodono in moti di vigliacca litigiosità. La simbiosi tra la città e gli abitanti è totale, si appartengono ormai da secoli con un sentimento in continua fermentazione che oscilla obliquo tra l’amore incondizionato e il disprezzo profondo. Con il tempo gli abitanti e la cittadina hanno cominciato ad assomigliarsi anche fisicamente e architettonicamente. La città e chiusa, stretta, parca di sentimenti e ombrosa. Fisicamente, l’abitante in purezza è ben piantato, chiuso in sé, tozzo e fortificato. Inaccessibile. Il suo humus è una dimensione terrena e campestre, ricca di sfumature ruspanti. Chiunque abbia vissuto nella cittadina, anche per poche ore, ne viene segnato indissolubilmente. Porta con sé quell’atmosfera a lungo e riconosce i suoi abitanti ovunque si trovino. Al volo. Però questa piccola città ha una peculiarità. Contiene un’antichissima e misteriosa astronave che ho scoperto e frequentato in tempi lontani. Nessuno sapeva con esattezza da dove, come e perché fosse arrivata proprio lì, ma attraverso una rigida selezione era possibile accedervi e partecipare alle sue missioni, generalmente quadriennali, con uno scivolamento massimo di un anno. E come ogni astronave che si rispetti aveva il suo mondo, con propri piani di viaggio e regole sue che nulla avevano in comune con la vita della cittadina e i suoi abitanti. Il sentimento dei suoi concittadini era di cordiale indifferenza, misto ad una sufficienza venata di scherno. Ora è celata alla vista ma non ai ricordi.

Non ci avevo più pensato e trovai curioso che la mia mente fosse approdata proprio lì. Passeggiavo sotto quel cielo plumbeo, in quelle strade morbide e disarmoniche, cercando di comprenderne la ruvida geometria, quando tra i bisbigli e i sussurri, improvvisamente, sento una voce. Evento quanto mai raro, e in quel momento, inaspettato. Non la sentivo da molto tempo, ma la conoscevo. Aveva fatto parte dell’astronave pure lei, in ere diverse dalle mie. Era errabonda e spuria, come me. Mi ricordò che una triste e particolare ricorrenza era prossima. Sapevo bene di cosa parlava. E ora capivo anche il percorso e l’approdo dei miei pensieri in quel particolare momento. Rispetto ad altre occasioni, questa volta sarebbe stato diverso. Mi disse che presto figure presenti nella mia storia e nella mia memoria, ma assenti dal mio presente si sarebbero messe in contatto con me. La interrogai sulle ragioni di quella futura e ancora ipotetica chiamata e mi rispose che era per dare forma a un ricordo e a un sentimento. Così recitava un’altra voce, giunta fino a lei. Veniva da molto lontano. La si sentiva di rado, ma sapeva come farsi ascoltare. Sovente le sue informazioni erano peregrine e inesatte, ma nonostante questo, nulla sembrava scalfire il prestigio del suo richiamo, anche se le sue radici affondavano profonde nell’humus di un’affascinante e filibustiera furagràzie. Anch’io ho una memoria sonora di questa voce, ricordo che mi parlava, ma non mi diceva niente.

Forse il tempo e l’esperienza avevano cambiato le cose, quello che un tempo si disperdeva nell’aria magari ora poteva mettere radici e creare qualcosa di bello. Se le poche, rade e nebulose informazioni trasportate dalla voce erano esatte sarebbe stato magnifico. Saremmo stati invitati a ricordare un nostro insegnante. Attraverso un’opera e una mostra. Anche perché noi, come lui, siamo artisti. E, sembrava che l’invito fosse rivolto esclusivamente a chi aveva continuato a percorrere la Via dell’arte. Ho pensato subito che fosse la cosa giusta. Quale modo migliore per riconoscere il tuo lascito, se non attraverso la dimensione del fare, tuo elemento prediletto, molto più di un’ariosa verbosità sicuramente affascinante, che però non aveva molta presa su di te. Preferivi, giustamente, che tutte le grandi suggestioni, le discussioni, le chirurgiche e puntuali osservazioni tecniche, che accoglievi sempre in maniera aperta e sorprendente, avessero un unico e solo punto d’origine, l’opera. Da lì, un intero universo era in paziente attesa, pronto a rivelarsi e svelare conoscenze nei campi più disparati, che mi meravigliavano sempre, a cui potevo attingere con fiducia. Ora però era il momento di concentrarsi sull’opera da realizzare per questa grande occasione. Mancavo d’informazioni importanti, fondamentali. Quali il luogo, lo spazio che avrei avuto a disposizione, le sue misure, il tempo a disposizione, e non ultimo, se e quando la mostra avrebbe visto la luce. Ma non m’importava. Mi misi subito al lavoro interrogandomi sulla realizzazione di un’opera adattabile e migrante, forte e flessibile, che contenesse passato, presente e futuro. Discreta, raccolta e silenziosa. Leggera e potente. Lavoravo alacremente, con una tranquilla e distesa intensità e l’opera stava prendendo forma. Le idee e i materiali venivano a me con una semplicità che mi meravigliava. Ogni elemento occupava naturalmente il suo spazio, e tutto era al suo posto, esattamente come lo avevo pensato e come doveva essere. Tutti gli elementi si trasformavano e integravano con gli altri in un equilibrio che dialogava con lo spazio bilanciandone l’attitudine mutevole in un equilibrio nomade e adattabile, ma contemporaneamente, forte e identitario. Intenso. Sicuramente il mio lavoro migliore. Ero stanco ma soddisfatto come poche altre volte mi era capitato, non era stato facile ma il risultato che era davanti a me mi ripagava di tutto. La contemplai a lungo, era un’opera nata più di trent’anni fa, con calma era cresciuta, aveva usato il tempo come setaccio e mi aveva lasciato la parte migliore di sé. Al momento giusto. Conteneva tutto quello che volevo ci fosse. Era il mio ringraziamento per te, e per tutto quello che mi avevi insegnato. Ora non restava altro da fare che aspettare. Mentre rincasavo, stanco ma felice, andai a dormire non sapendo che la mia attesa era finita.

Me ne accorsi la mattina dopo, sfogliando la posta in arrivo. Una missiva m’informava che un’importante iniziativa era in cantiere per ricordarti. Non c’era più una mostra, ma un libro. Non ne fui sorpreso. La voce aveva perso l’ennesima occasione per fare qualcosa. E’ rimasta quello che è sempre stata, una voce. La forma del nostro ricordo e dei nostri sentimenti era radicalmente cambiata, avremmo dovuto cimentarci con le parole, con la scrittura. Una sfida non da poco ricordarti in questo modo, tu che mi raccomandavi sempre di fare, e parlare il meno possibile. Così eccomi qua, davanti a una pagina bianca in paziente attesa di vocali, consonanti, punti e virgola, parentesi, apostrofi, accenti, maiuscole e minuscole, tutte rigorosamente di colore nero, su fondo bianco. Yin e Yang. Non so in che ordine arriveranno e se sarò capace di dargli un senso compiuto, ma ci proverò.

La prima cosa che mi viene in mente davanti a questo spazio bianco è la libertà, la seconda sono le infinite possibilità. A non temere lo spazio bianco è una cosa che ho imparato da te, quando ero sull’astronave. Un’altra è stata quella di non aver paura di sbagliare e di seguire l’istinto e le suggestioni, per quanto incoerenti e lontane possano essere. Me ne vengono in mente due. Il rumore bianco, in acustica, è un suono contenente tutte le frequenze udibili, e viene chiamato “bianco” per analogia con il colore bianco che contiene tutte le frequenze visibili. E’ come il silenzio in musica, è anch’esso un tempo musicale. La scrittura come la pittura è ritmo, composizione, colore, dialogo, comprime e dilata lo spazio. Le similitudini con l’arte visuale sono molteplici, ma a me piace ricordarne soprattutto una. Che si comincia sempre da uno spazio bianco, che sia una camera vuota, una pagina, una tela, una tavola. C’è un’altra cosa di cui ti sarò per sempre grato. Quella di avere visto oltre me, oltre quello che ero allora. Un ragazzino, che non sapeva nulla. Ricordo il mio ingresso nell’astronave, quando ti ho incontrato per la prima volta. Come ogni cosa importante che mi sia capitata e che si rispetti non avevo la minima idea di dove stessi andando, dove fossi e cosa stessi facendo. Tutto era avvolto in una nebbia radiosa e luminosa, i miei passi erano incerti e il territorio che stavo esplorando era incomprensibile e sfuggente. La Via che mi condusse verso l’astronave veniva da molto lontano, prima di me e oltre me. Ma questo lo capii solo molto tempo dopo. Oggi, dopo tanti anni, penso che la Via dove mi trovo ora tu l’abbia vista prima di me, e molto chiaramente. Sapevi che c’era una Via da percorrere, un territorio da esplorare. In luminose e frammentarie intuizioni a malapena ne avevo lambito i fragili confini, ma tu con umiltà e semplicità mi ci hai portato. Naturalmente. Senza forzature. Con i tempi giusti. Ancora oggi, dopo tanti anni, sono ancora qui. A percorrere questa Via. Bella, difficile e solitaria. Traccio un sentiero in questo territorio sconosciuto dai confini mobili, morbidi e fluttuanti, e ogni tanto mi volto a cercare le tracce del mio cammino, ma ormai sono scomparse.

Cerco riferimenti invisibili e misteriosi, orientamenti certi impossibili da trovare. Non mi resta altro da fare che costruire il mio universo nell’intimità del mio studio e di me stesso, con laboriosa e certosina passione, una discreta vastità, una buona luminosità e qualche intuizione degna di ricordo. Non è molto popolato, il mio intimo è esigente e permaloso e non avvezzo a chiarori troppo intensi ed abbaglianti, ho bisogno di grandi spazi, propedeutici al pensiero e all’azione, all’immobilità e alla meditazione, e sono abbastanza lento nel mio incedere e nel mio decidere. Mi occupo poco di quello che succede fuori pur essendo un esploratore curioso e vorace, preferisco occuparmi di quello che c’è dentro. E dentro c’è tutto quello di bello e significativo che ho incontrato e incontro in questo mio viaggio. E, naturalmente, ci sei anche tu, caro Nuvolo. Non so dove sei ora, ma so esattamente dove trovarti. Dove sei sempre stato. Nelle mie opere e nel mio lavoro. Accanto a me.